Commento di Ugo Ronfani


Leggo da anni, con ammirazione e divertimento, i testi di Stefano Ricci e Gianni Forte e mi congratulo con la giuria del Vallecorsi per aver preferito, sulle altre, una commedia come Terra di confine : di sottile trasognata poeticità, consona alle tragicomiche inquietudini del nostro tempo, giocosa e terribile, riferibile a modelli da me amati eppure di prorompente originalità. Un verdetto di fiducia nel futuro di una drammaturgia italiana contemporanea che esiste ma è bloccata dalle consorterie produttive e distributive di un Teatro nelle mani di mestieranti e burocrati. Qui, adesso, abbiamo una bella commedia, ironica, spassosa ( mi sono ricordato, leggendola, di quello che Anouilh diceva delle geniali pochades sovversive di Ionesco: i pensieri di Pascal recitati dai clowns Fratellini ), a due soli personaggi, con una terza figura silenziosa ed invisibile: una donna bugiarda e fatale, moglie e concubina, santa e puttana e, forse, fatta a pezzi, qui sulla vecchia Terra o su Sirio, da qualche Sirio-Killer. Due individui in disarmo, Teo e Elio, si incontrano in un parco comunale e iniziano a discorrere, prima distrattamente - infarcendo le loro affermazioni degli sterili luoghi comuni propri delle conversazioni tra sconosciuti - e poi in modo sempre più coinvolto, fino a scoprire di aver amato la stessa donna, moglie dell’uno e amante dell’altro. A questo punto è inserito il primo slittamento della struttura del testo: il prevedibile scontro da dramma borghese tra i due personaggi è scansato dalla subitanea rivelazione che quello che si era palesato come un incontro casuale, consiste, al contrario, in una seduta terapeutica tra medico e paziente. La realtà, tuttavia, non è così semplice e piana come potrebbe apparire e ben presto anche la seduta si dichiara una finzione, o meglio un gioco escogitato dai due uomini - ospiti presumibilmente di una struttura psichiatrica - per trascorrere il tempo e non esserne invece fagocitati. Questi disorientanti ed efficaci colpi di scena esigono dal pubblico/lettore umiltà e momentanea sospensione del pensiero razionale: l’umiltà di non pretendere di aver capito il gioco, pena l’inatteso e repentino sfaldarsi di qualsivoglia velleitaria certezza.

Costruita con teatrale maestria, la commedia, nella semplicità della sua forma, restituisce in pieno la potenza del dia-logos in senso non soltanto

rappresentativo ma anche, direi, maieutico. Le battute, il linguaggio - scarnificati sino all’essenza della funzione comunicativa - sono accordati alla logica propria del pensiero franto e immaginoso, irrazionale e visionario delle due menti, forse assassine eppure candide, autoironiche e disperate, capaci di sopravvivere grazie soltanto alla loro malinconica e giocosa poesia, non intaccata ancora dall’aridità della vita.

Teatro nel teatro? Mi viene da rispondere: “teatro del teatro”, teatro della vita o meglio, nella vita. Opere come Terra di confine fanno intravedere e credere nella possibilità, sempre ricorrente e mai del tutto estinta, di un teatro biotico, di una rappresentazione “a tinte forti” della società, senza però che si disperda lo specimen teatrale. Così nel giardino pubblico – la riserva degli indiani, il posto dei relitti, lo spazio dei diversi, il luogo dei poeti – si compie il gioco della vita, talmente semplice che i due forzati amici lo hanno, con gli anni, trasformato in un Rito. Quale miglior occasione del passaggio della cometa Hale-Bopp per riprendere la liturgia, in forma sempre più cangiante, ammantata dei suoi abiti più sfolgoranti? La morte, simulata come nelle grandi manovre dell’anima, sfocia nell’eterno ritorno della simbolica cometa. Su Teo e Elio passano leggere le ombre di Zavattini ( quello de I poveri sono matti ), di Dubillard e di Fellini ma anche di Beckett e Ionesco. L’attesa, i discorsi, fanno naufragio nel silenzio degli spazi ( quello che spaventò Pascal!), lasciando vivido solo il sogno di Teo:

afferrare la coda a scimitarra di Hale-Bopp e cavalcare la sua scia, bruciando con lei e ridendo del comico dell’esistenza. Per cui un solo, spassionato consiglio: aggrappatevi anche voi alla coda della cometa di Ricci & Forte!

Note di regia di Cèsar Corrales


Un equilibrio instabile di due persone, due esseri umani sospesi in un mondo senza tempo, in un tempo sempre uguale a se stesso. Due uomini che si incontrano in un contesto indefinito, sentono la necessità di compiere una cerimonia, un rito: il rito della loro esistenza.

Da quel momento nasce un dialogo che non finirà mai, perché in realtà non è mai iniziato, è sempre esistito: l’intreccio di parole, di idee, di sensazioni che diventano necessarie per esistere, per essere, per stare.

Le due personalità si penetrano a vicenda per riempire la loro completezza, si sovrappongono alla ricerca di una comprensione assoluta ed infinita sul “chi siamo” e, soprattutto, “se siamo” ora e per sempre.I temi eterni dell’umanità vengono esposti con l’indifferenza di chi non ha più paura di scoprire il mistero della vita; i corpi dei personaggi muoiono nell’arte di esprimere i desideri, le ansie e i sentimenti, a tal punto che lo spettatore si libera dagli attori, vivendo pienamente la libertà estetica. La stupidità del mondo è così superlativa che, quando sentiamo il malessere del nostro tempo, abbiamo sempre dato la colpa al sole, alla luna alle stelle… I nostri “clown”, nell’attesa infinita della cometa Hale-Boop, ci riportano senza paura alla nostra immensa ed ingenua ignoranza.

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